
Oggi, però, voglio parlare proprio di medicina. Precisamente, di innovazione applicata alla medicina. Capita di rado, infatti, che tra le cose che leggo, vedo, discuto, penso, ci sia lo sviluppo applicato alla tecnica chirurgica (sono rimasto alla telemedicina di carattere clinico più che operativo, tele consulenza per dire…). Eppure, sempre più spesso, il destino di noi umani è legato ad un progresso scientifico inteso in senso lato ovvero integrato.
Il nostro interlocutore è Raffaele Russo, napoletano (con un nome così…), docente universitario e direttore di Struttura Complessa Ospedaliera presso l’ospedale Pellegrini, uno dei più importanti chirurghi ortopedici a livello internazionale, con particolare attenzione a spalla e gomito. Lo incontriamo di ritorno da Lione, dove ha presentato, a una platea di 1.460 delegati provenienti da 46 Paesi, uno studio finalizzato al miglioramento del movimento di extrarotazione nelle protesi di spalla inverse utilizzate nelle fratture dei grandi anziani.
Professor Russo, che rapporto ha con la tecnologia?
Il mio rapporto è di amore fortissimo intercalato ad un disappunto occasionale ma intenso. Mi spiego. Il mio è un lavoro che senza le basi scientifiche della tecnologia intesa come meccanica/fisica applicata all’apparato locomotore e alla conoscenza dei biomateriali, non va da nessuna parte. È un complesso integrato. Quando il chirurgo coagula capacità manuali, conoscenza dei problemi e attenzione alla ricerca, può dare il massimo di sé e quindi il rapporto è forte, di amore. Ma quando l’ambiente dove opera non consente l’evoluzione applicativa e la sperimentazione per inefficienze locali, assistiamo alla morte dell'innovazione ed emerge il disappunto.
Lei è uno dei rari casi di ortopedico titolare dello sviluppo di device. Da creativo, sono curioso di sapere come nasce in lei l’idea di ricerca.
Ho sempre avuto una forte attrazione per le novità e le ragioni degli eventi. Da ragazzo avevo una estrema propensione per l’attività plastica e il disegno, soprattutto classico, del corpo umano. Da studente in medicina, l’anatomia la vedevo in senso tridimensionale pur studiando solo su libri e figure: in seguito, ho capito che era la mia parte destra del cervello che funzionava in un certo modo.
Quindi, è venuta l’applicazione all’ortopedia: mi incuriosiva capire il perché dopo alcune malattie ortopedico-traumatiche, i pazienti continuavano ad avere dolore e impotenza funzionale. Questo è avvenuto su una articolazione poco conosciuta, la spalla.
Era difficile e complessa e pochi se ne interessavano in Italia all'inizio degli anni ottanta. Studiando alcuni casi difficili, mi sono appassionato e per caso ho visto che alcune fratture e i loro esiti della testa omerale erano invalidanti. Soprattutto le fratture a 4 parti. Quasi tutti disastri con o senza la chirurgia. Tengo conto che la chirurgia della spalla è nata circa mezzo secolo fa e gli studi di Neer, che ne è stato il padre fondatore, avevano dimostrato che, in una frattura a 4 parti della testa omerale, la necrosi della calotta rappresentava il 90%. Pertanto, si era applicato all'ideazione di una protesi, fiducioso di ripetere gli stessi risultati della protesi all'anca. Purtroppo, l'esperienza ha dimostrato il contrario: ben il 50% di cattivi risultati, anche in mani esperte.
Dunque, il successo del metodo Russo nasce da un fallimento?
Più che da un fallimento, direi dalla voglia di superare delle criticità. Circa quindici anni fa, ebbi modo di operare un paziente con esiti di frattura della testa omerale già curato chirurgicamente ma senza successo. Si trattava di un reintervento difficile e dalla scarsissima letteratura. Solo sette casi pubblicati da una equipe del Nord Europa.
Applicai tecniche di meccanica e aggiunsi alla testa omerale un osso prelevato dalla cresta iliaca, generando inconsapevolmente anche effetti biologici (cellule midollari). L'operazione riuscì benissimo, la testa omerale non andò in necrosi. Così, ho cominciato a lavorare su questo concetto e a operare le fratture della testa omerale con attività conservativa e ricostruttiva.
Nel tempo, perfezionando la mia tecnica, ho visto pazienti reagire bene e ho allargato questa indicazione anche a ultrasettantenni riducendo al minimo l’uso delle protesi. Nel 2004, definii questa tecnica Ricostruzione della testa omerale con Bone-block. Nel 2005, assieme a mio fratello ingegnere presso l'ASI, ho disegnato e brevettato questo sistema che si chiama Da Vinci, applicandolo a oltre 100 pazienti con ottimi risultati. Ho pubblicato lo studio. Se ci fosse la possibilità di studiare il metodo e migliorarlo specialmente da un punto di vista meccanico e dei biomateriali, sarei felicissimo. Nel frattempo, sia a livello italiano che internazionale, sono tanti i colleghi che hanno iniziato a praticare questa tecnica.
Cosa si prova a operare a Napoli, in un contesto così difficile, senza perdere l’orizzonte e l’ambizione del mondo intero?
Che a Napoli sia tutto più difficile, è cosa risaputa. Ma, al di là dei luoghi comuni, quello che assolutamente manca è la sensibilità per il bene comune. Non c’è progettualità, non c’è lavoro di squadra, non c’è preparazione integrata allo studio oggettivo, non c’è aiuto verso le strutture d’eccellenza, non c’è un garante della osservazione scientifica, non c’è integrazione ospedale/università, non c’è osmosi della cultura.
C’è intelligenza, sì, e finché avrò la forza di assecondarla, resisterò.